I Brettii

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Mura di cinta di Castiglione di Paludi.

Mura di cinta di Castiglione di Paludi.

I Brettii (357 – 202 a.C.)

Gli storici antichi (Strabone, Diodoro Siculo, Giustino) fanno riferimento alla comparsa in Calabria, intorno alla seconda metà del IV sec. a.C., del popolo italico dei Brettii (noti anche come Bruttii o Bruzi), che si andava espandendo nella terra degli Enotri ai danni delle colonie greche della costa. Pare che essi fossero dei servi-pastori dei Lucani da cui si separarono in seguito ad una ribellione e, dedicatisi dapprima al brigantaggio e alle scorrerie, successivamente si riunirono in una Confederazione che elesse come capitale (metròpolis) Cosenza (circa 356 a.C.). Nonostante vari tentativi di resistenza all’espansione romana in Italia meridionale, che li videro anche alleati dei Cartaginesi durante la seconda guerra punica (219-202 a.C.), non ebbero la capacità di opporsi alla conquista definitiva del Bruzio (fine del III sec. a.C.).

Le fonti fanno una descrizione talmente negativa dei Brettii che persino la lingua è definita “oscura” come la loro rinomata pece. Essi, in realtà, erano bilingui, parlavano sia il greco che l’osco, una lingua del ceppo italico. Gli insediamenti brettii erano posti in aree facilmente difendibili e ricche di risorse: città fortificate o villaggi a vista reciproca, posti in posizione dominante sulle vie di comunicazione che, indipendenti in tempo di pace, si riunivano sotto un comando comune per questioni di politica estera. Gli abitati avevano edifici pubblici imponenti (come il teatro di Castiglione di Paludi) e case costruite in ciottoli di fiume uniti a secco, con alzato in mattoni crudi e tetto in tegole. Di molti di questi stanziamenti sono ancora visibili i resti delle fortificazioni in blocchi parallelepipedi di arenaria che, poiché simili all’architettura militare greca, fanno supporre l’impiego di maestranze provenienti dalle colonie. La vicinanza alle montagne, ai corsi d’acqua e alle pianure connota la loro economia come agricola e pastorale: era basata, infatti, sull’allevamento, la pastorizia, la produzione di lana e latticini e, soprattutto, sulla produzione della famosa pece ricavata dalle foreste della Sila. La cultura materiale dei Brettii si distingue poco da quella dei popoli coevi, di cui importavano o imitavano manufatti, come i vasi fabbricati nelle colonie greche dell’Italia meridionale (vasi italioti) o le armi e gli ornamenti. Sono specifici dei Brettii i cinturoni in bronzo, le corazze sbalzate, i diademi e i gioielli in bronzo o in metallo prezioso.

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Carta dei principali siti brettii: 1 – Laos 2 – Torre del Mordillo 3 – Serra Castello 4 – Castiglione di Paludi 5 – Pietrapaola 6 – Prujia di Terravecchia e Salto di Cariati 7 – Cirò 8 – Murge di Strongoli 9 – Petèlia (Strongoli) 10 – Cozzo la Torre di Torano Castello 11 – Acquappesa 12 – Luzzi 13 – Rose 14 – Montalto Uffugo 15 – Cosenza 16 – Carolei 17 – S. Lucido 18 – Nocera Terinese 19 – S. Eufemia 20 – Tiriolo 21 – Hipponion (Vibo Valentia) 22 – Oppido Mamertina.

Cosenza, metropoli dei Brettii (356 – 202 a.C)

Lo sviluppo del nucleo insediativo più antico di Cosenza fu favorito dalla posizione dominante del colle Pancrazio, su cui sorse, rispetto al territorio circostante. Da qui, infatti, era facilmente raggiungibile sia la costa ionica, attraverso la valle del Crati, che favoriva gli scambi con le ricche colonie costiere, sia la costa tirrenica – lungo il fiume Savuto – e la Sila, ricca di inesauribili risorse naturali. Questa posizione nodale sul territorio accentuò nel corso dei secoli il ruolo egemone del centro che le fonti storiche (Strabone, Appiano) identificano come capitale (metròpolis) dei Brettii.

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La peculiare posizione geografica di Cosenza, all’origine della valle del Crati e stretta tra la Catena Costiera e la Sila.

La rocca brettia

Il colle Pancrazio, protetto naturalmente da ripide pareti verso il lato ovest, era difeso da una cinta muraria nella sua parte più vulnerabile, quella nord-est, che con un pendio meno scosceso scende verso il Crati. Il centro fortificato serviva da rifugio nei momenti di pericolo e di insicurezza per tutti i villaggi vicini, quegli insediamenti rurali – spesso attestati solamente da sepolture ad essi pertinenti – con cui i Brettii erano soliti occupare capillarmente il territorio. L’esiguità delle fonti circa l’insediamento più antico impedisce di ricostruirne con precisione la storia: si ha solo certezza dell’importanza rivestita dalla città nel 331 a.C. – quando vi è inviata parte delle spoglie di Alessandro il Molosso – e durante la seconda guerra punica (219 – 202 a.C.). Si può tentare, invece, di ricostruirne una carta archeologica sulla base dei vaghi riferimenti degli studiosi locali e dei dati forniti dalle scoperte più recenti nel centro storico (Palazzo Sersale, ex Seminario Arcivescovile, Piazza A. Toscano, Via S. Tommaso e all’interno del Duomo).

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Carta archeologica di Cosenza in età ellenistica, con indicazione di alcuni tratti della cinta muraria. Abitato: 1 – Palazzo Sersale 2 – Ex Seminario Arcivescovile 3 – Piazza A. Toscano 4 – Duomo 5 – Via S. Tommaso Cinta muraria: 6 – Convento delle Cappuccinelle 7 – Convento di S. Francesco d’Assisi 8 – Via Messer Andrea 9 – Quartiere S. Lucia 10 – Via Bombini Necropoli: 11 – Contrada Villanello 12 – Contrada Moio

Cosenza, gli scavi urbani

Le strutture di età ellenistica finora individuate sono costituite da resti di muri in ciottoli di fiume, uniti a secco: si tratta degli zoccoli di fondazione di semplici abitazioni con alzato in mattoni crudi e tetto in tegole, a volte arricchite da un portico d’ingresso. È questo il caso attestato nell’ex Seminario Arcivescovile (oggi sede della Biblioteca Nazionale), dove il ritrovamento dei buchi per i pali lignei scavati nel terreno dimostra l’esistenza di una tettoia. Di destinazione pubblica doveva essere invece un grande edificio scoperto a Piazza A. Toscano. Questo stabile, di cui è stata individuata la scala di accesso, dopo aver subito una serie di rifacimenti restò in uso fino all’età tardo-repubblicana (I sec. a.C.). Tra i materiali esposti si segnalano alcuni frammenti di ceramica a figure rosse e resti di statuette in terracotta, fra cui un’interessante figurina di cavaliere con scudo, forse indizio di un culto.

I riti funerari dei Brettii

Come per gli altri popoli antichi, era costume dei Brettii seppellire i defunti con oggetti della vita quotidiana che costituivano il corredo funebre. Sono distintive delle tombe maschili le armi da offesa e da difesa in ferro o bronzo (elmo, corazza, cinturone, schinieri, punte di lancia, spada, ecc.) che connotano il defunto come un guerriero, mentre la presenza dello strigile (strumento con cui gli atleti si asciugavano il sudore) rimanda all’attività della palestra. Rinvenimenti di contenitori per bere, come coppe (kýlikes) e bicchieri (skýphoi), per versare il vino (oinochóai) o per mescolarlo con l’acqua (crateri), la presenza di corone o diademi composti di foglie o rosette in oro o bronzo, fanno pensare alla pratica del simposio (usanza conviviale di bere il vino insieme dopo il pranzo). Talvolta nelle tombe si rinvengono spiedi e alari in ferro o in piombo: oggetti della vita quotidiana, ma con funzione simbolico-rituale. Nelle tombe femminili sono frequenti i recipienti con coperchio usati per contenere oggetti riferibili al corredo personale (pissidi, lekànai), i pesi da telaio, i vasi relativi al matrimonio (lebèti) o all’ambiente domestico. Sono consueti i rinvenimenti di resti metallici di cofanetti lignei e piccoli utensili in osso o in bronzo per la cosmesi, di fermagli per le vesti (fibule) in bronzo, e più raramente in argento. Rari i gioielli, soprattutto se in metallo prezioso. Dai rituali funerari è possibile comprendere che quella dei Brettii era una società stratificata: mentre i ceti popolari usavano semplici tombe a fossa terragna, “a cassa” o “a cappuccina”, i ceti dominanti seppellivano i loro morti in tombe a camera sotterranee. La tomba “a cappuccina” era formata da una serie di tegole disposte a doppio spiovente sul corpo del morto, che giaceva supino sulla nuda terra o su tegole affiancate. Talvolta le pareti della fossa erano rivestite da tegole accostate (in questo caso si tratta di tomba “a cassa”). All’interno della tomba era conservato il corredo e talvolta, nei pressi, è possibile trovare vasi e avanzi del pasto funebre. Le tombe erano poi ricoperte di terra. Le tombe a camera erano costituite da un piccolo vano rettangolare in blocchi di arenaria, ricoperto da lastroni. Il breve corridoio d’accesso era spesso decorato con particolari architettonici scolpiti o con colonne in arenaria locale, ed era chiuso con grossi blocchi parallelepipedi posti l’uno sull’altro. Le pareti interne potevano essere intonacate e affrescate e i corredi erano collocati sul fondo della stanza. I defunti erano deposti su letti in pietra o entro cassoni di lastre o fosse ricoperte da tegole.

La tomba a camera di Villanello

Da Contrada Villanello, località posta a nord-ovest del colle Pancrazio, tra il fiume Busento e la parallela via cosiddetta Circonvallazione, fin dalla metà dell’800 gli storici locali danno notizia del ritrovamento di strutture murarie di difficile interpretazione, di monete andate poi disperse e di oggetti pertinenti a non meglio identificabili “tombe greco-romane”. Nel 1930, durante lavori edili, è stato qui recuperato, e prontamente acquisito dal Museo Civico, un capitello ionico in pietra arenaria, rinvenuto insieme ad alcuni massi squadrati. La notizia del contestuale recupero di un elmo bronzeo, ora andato disperso, avvalorerebbe l’ipotesi che esso sia pertinente ad una colonna che decorava la fronte di una ricca tomba a camera, sepoltura di un personaggio maschile, forse un guerriero, del ceto dominante dei Brettii.

La necropoli di Moio

In Contrada Moio, nel 1932, durante la costruzione dell’Ospedale Civile dell’Annunziata di Cosenza, fu scoperto un cimitero (necropoli) di età brettia (IV-III sec. a.C.), dai corredi piuttosto poveri. La necropoli viene riferita a un villaggio posto sull’altura sovrastante. Furono recuperate circa 70 tombe a fossa ricoperte di tegole “alla cappuccina”: il ricorrere di tombe ravvicinate di uomo, donna e bambino fa ipotizzare un’organizzazione per gruppi familiari. Nei pressi di alcune tombe era posto un grosso vaso con avanzi del pasto funebre. I defunti erano accompagnati da forme comuni di ceramica a vernice nera – bicchieri (skýphoi), coppette, balsamari, ecc.- spesso di tipo miniaturistico, e da alcuni reperti in bronzo. Pochi gli esempi di ceramica a figure rosse, di qualità mediocre e di produzione probabilmente locale. Vasi prodotti nelle colonie greche (italioti), andati dispersi, provenivano dal ricco corredo dell’unica tomba a cassa rettangolare rinvenuta (t. 56); di essa rimangono gli spiedi e gli alari in piombo, simboli del banchetto. Dalla tomba 21 proviene un’asta metallica, forse una traccia del gioco del kòttabos, praticato durante il simposio, tra il bere, le danze, il canto, gettando le ultime gocce di vino in un piatto sistemato sull’asta.

Il gioco del kottabos

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